Al cuor non si comanda – parte 3
Le parti precedenti potete trovarle qui:
Decisi che non era vero. Non potevo essere così sfortunata da avere un problema cardiaco e un problema neurologico distinti, non collegati tra loro. Iniziai ad unire i puntini, a cercare di capire come funzionava il mio corpo (ebbi anche per un momento l’idea di studiare medicina). Pensavo e ripensavo e fu allora che iniziai ad ascoltare davvero il mio corpo. Cercavo di capire come funzionavo, facendo tante piccole cose in più per vedere fino a dove potevo spingermi. Sorprendentemente, iniziai ad accettarmi. Capii che alcune cose, per il momento, non potevo farle ma che ad altre non volevo assolutamente rinunciare e che quindi ci sarebbe stato bisogno di trovare dei compromessi nella mia vita. Banalmente, non potevo mangiare fritti perché la fatica nel digerirli mi portava a svenire ma non per questo se gli amici volevano andare a mangiare lo gnocco fritto io non potevo andare: si cercava un posto dove facessero anche le tigelle. Non mi sentivo sicura a fare i viaggi avventurosi che avevo sempre desiderato fare, ma non vuol dire che non potessi viaggiare: lo avrei fatto in compagnia di persone fidate. O, più seriamente, non potevo caricarmi di troppo stress ma non volevo rinunciare a studiare Ingegneria Aerospaziale: mi promisi di trovare sempre il tempo per me stessa e per staccare la testa, che fosse ascoltando la musica in treno o tornando a casa a piedi la sera.
Iniziai ad accettarmi e a vedere il mio corpo non più come un nemico ma come un compagno di viaggio e assumere questo diverso punto di vista mi face venire un’idea e ne parlai con il mio cardiologo, che chiamerò Dottor B. . Gli chiesi se non potesse essere che, siccome il mio corpo quando si sforzava molto portava il cuore in aritmia, un’aritmia prolungata portasse un flusso di ossigeno non costante al cervello e che questo, ad un certo punto e giustamente, andasse in blackout. Infatti, io non ho mai sentito le aritmie perché essendoci nata per me un ritmo non regolare era la normalità e, di conseguenza, non riuscivo a capire quando e per quanto tempo avessi delle aritmie, sforzando probabilmente oltremodo il mio corpo. Ecco, ho supposto che i miei svenimenti fossero il segnale di stanchezza che il mio corpo mi inviava dopo una forte aritmia. Della serie “Tesoro mio, io ci provo a starti dietro ma dammi un attimo”.
Il mio cardiologo mi disse che poteva essere un’ipotesi e si iniziò a parlare di intervento al cuore. In realtà, lui ne aveva già parlato quando ero piccola ai miei genitori, appena trovate le aritmie, quando avevo circa un anno e mezzo. L’ idea era poi lasciata da parte perché sarebbe stato un intervento complicato ed era preferibile aspettare qualche anno, nel caso il problema non si fosse risolto con i farmaci antiaritmici. Il Dottor B. aveva infatti supposto che nel giro di vent’anni lo sviluppo tecnologico in ambito medico avrebbe potuto fornire i mezzi per eseguire lo stesso intervento non più a cuore aperto, come sarebbe invece stato al tempo, ma attraverso dei cateteri inseriti dall’inguine. Decisamente un intervento molto meno complicato ed invasivo. Erano passati vent’anni e aveva avuto ragione: l’ablazione cardiaca era possibile per via transcatetere.
Siccome quello tra aritmie e svenimenti non era un collegamento certo, altri dottori mi dissero chiaro e tondo che poteva anche essere che dopo l’intervento non cambiasse nulla, che magari mi sarei tenuta i miei blackout per tutta la vita. Ma d’altronde che scelta avevo? Era un periodo molto difficile: mia mamma stava combattendo un tumore (ora sta bene), stavo studiando tanto per recuperare gli esami che avevo lasciato indietro, a causa del mio background classico, e cercare di laurearmi in tempo e, anche se avevo imparato a riconoscere il mio limite e quindi difficilmente lo superavo, sapevo di essere sempre molto vicina al “limite di blackdown”. Il Dottor B., che ormai avete capito essere stata LA persona di fiducia in questo percorso, al contrario di altri, appoggiava questa possibilità e già questo sarebbe bastato. Poi sapete quando ci si sente che è la strada giusta? Ecco, poche volte avevo sentito quella sensazione in maniera così forte e in cuor mio ero certa che l’intervento sarebbe stata la soluzione. Ero decisa ad operarmi.
Non fu così semplice la questione perché caso volle che in quel periodo il Dottor B. andasse in pensione e io passai sotto l’aritmologo del reparto, il quale era un po’ restio a farmi operare. Provarono a darmi dei betabloccanti, iniziai a prenderli e iniziai a stare malissimo, del tipo che mi girava continuamente la testa. Dissero che era impossibile ma io smisi di prenderli perché non stavo in piedi e alla fine, sotto consiglio informale del dottor B., ci rivolgemmo al centro di Asti, in Piemonte, il quale accettò la richiesta di intervento e fui messa in lista di attesa per ottobre dello stesso anno. “Ottobre, bel mese, speriamo che il giorno non coincida con quello della discussione della tesi triennale” pensai.
Il 25 maggio 2017 per la prima volta andammo ad Asti per una visita conoscitiva e per la prima volta in 22 anni qualcuno diede nome e cognome alla mia particolarità: PJRT, o tachicardia di Coumel o tachicardia permanente reciprocante giunzionale. Decisero di operarmi ad agosto anziché ad ottobre e pensai che fosse perfetto così avevo modo di finire i calcoli della tesi, poi mi sarei presa un paio di settimane ad agosto per l’intervento e dopodiché avrei finito di scrivere la tesi. Tanto avevano detto che era un intervento non difficile, dovevano solo infilarmi un paio di sonde dall’inguine e cicatrizzare il punto nel cuore dal quale partiva l’aritmia. Niente in tutto dicevano, “un’oretta di intervento e poi nel giro di qualche giorno si sta bene“.
Sì, come no.